Dopo l’ultima ora del nostro primo giorno di liceo scientifico – era un sabato del settembre 1985 – ci lasciammo con l’auspicio di proseguire, il prima possibile, una conversazione critica sulla figura di Italo Calvino, scomparso proprio qualche giorno prima: l’aveva colpita una mia definizione piuttosto “colorita” del suo modo di scrivere, interrotta bruscamente dal suono della campanella. Mi colpì l’interesse (ripensandoci, oggi, lo definirei quasi entusiasmo) con il quale aveva accolto il modestissimo parere – espresso con inevitabile timore reverenziale da uno studente fresco di scuola media, poco più che bambino – e la considerazione offerta all’opinione di un ragazzino, meritevole addirittura di ulteriore approfondimento; approfondimento che, con mio inevitabile stupore, Lei riprese davvero e ampliò con fervore il lunedì successivo, partendo proprio da quelle mie (apparentemente?) ingenue parole. Per la prima volta mi sentii profondamente lusingato.

Lei starà sicuramente sorridendo ai miei ricordi e io con Lei: la mia storia personale di studente, nei mesi e anni seguenti, infatti, non fu parimenti luminosa né, appunto, lusinghiera. Studiavo poco e giocavo tanto (a pallacanestro), in un rapporto drammaticamente e proporzionalmente invertito. E se, con Lei, in italiano sopravvivevo tra i marosi del nozionismo grazie a una peculiare abilità nell’improvvisazione compositiva e creativa, in storia e, soprattutto, letteratura latina il disastro progressivo del biennio fu totale; la grammatica latina mi accompagnò inevitabilmente anche nella greve stagione estiva 1986, rappresentando, infine, una delle tante cause della definitiva débâcle del secondo anno, dopo il quale decisi di trasferirmi presso “l’altro liceo”, quello al tempo definito più umano e, obiettivamente, abbordabile e compatibile con i mille interessi extrascolastici di un adolescente confuso.

Nonostante il mio percorso scolastico si fosse sin lì caratterizzato da prestazioni imbarazzanti in termini prettamente numerici – ricorderò sempre un severo, sonoro e inappellabile “tre” per aver sbagliato la prima e unica risposta a una domanda sul Foscolo – Lei non mancava di trasmettermi, sempre e comunque, un’indefinibile sensazione subliminale di profonda stima e, in fondo, intima e genuina sofferenza per voti che, immagino, nella Sua aspettativa non rendevano giustizia a una sorta di “talento” che attendeva solo l’attesa, auspicata e prepotente emersione. Tale sensazione si manifestava attraverso piccole e reiterate attenzioni esclusivamente dedicatemi: ad esempio, era Sua abitudine presentarsi in classe con una consistente mole di quotidiani italiani e stranieri, frutto della frequentazione notturna dell’enorme edicola nella stazione ferroviaria dell’epoca – che era ormai divenuta Sua surrogata dimora riminese insieme all’altrettanto leggendaria Fiat Panda – per chiedermi espressamente la traduzione e l’interpretazione di freschi titoli in lingua inglese: anche se ci trovavamo in una sezione mista francese/tedesco, infatti, entrambi condividevamo una malcelata passione per la cultura e la politica anglosassone. Oppure, a causa della Sua anticonvenzionale passione per “gli slogan” attraverso i quali noi studenti dovevamo interpretare e sintetizzare, in termini il più possibile efficaci e sintetici, un argomento o un concetto (provocazione apparentemente ludica, ma effettivamente da Lei applicata con sagace e silenziosa attenzione), ero diventato il Suo più frequente e, spesso, privilegiato interlocutore: ricordo indelebilmente (e Le ricordai anni dopo) il ‘tormentone’ che mi perseguitò per mesi dopo aver definito i Gracchi “Fratelli Marx” per le iniziative a favore della plebe; quando scrissi tale mia interpretazione sulla lavagna, ricordo che Lei esplose in un sorriso complice e compiaciuto di enorme portata: nessuno ancora poteva sapere – o intuire, o prevedere – che quella caratteristica dialettica di un ragazzino di 15 anni si sarebbe progressivamente propagata, ingigantita e rafforzata, al punto da diventare, dieci anni dopo, gratificante e riconosciuta professione. Le citai quell’episodio nei primi anni Novanta, quando il mio percorso di studi si era definitivamente orientato verso la Comunicazione d’Impresa, la cui spinta propulsiva trovava origine, sicuramente, da quella ormai lontana giornata, da quel sorriso e da quel curioso rapporto – caratterizzato sì dalle mie scarse prestazioni scolastiche ma da una profonda considerazione reciproca – tra uno studente svogliato e un insegnante misantropo dalla sfuggente grandezza, apparentemente disilluso ed esasperato sino alla nausea dai propri studenti più distratti, che tanti anni dopo ritrovai nella memorabile figura del professor Fiorito nel film “Il Rosso e il Blu” di Giuseppe Piccioni. Molti anni dopo Le suggerii il titolo della pellicola: sono certo che dopo aver preso nota pseudo-distratta della mia indicazione si sia immediatamente attivato per scoprirla: questo era il nostro gioco.

Negli anni successivi – eravamo ormai nella prima decade del nuovo millennio – Le confermai poi in varie occasioni, la valenza personale e pedagogica di quella Sua costante tensione severa ma costruttiva, cercando di insinuare e far attecchire la mia enorme riconoscenza nella sua sfuggente presenza, ormai divenuta tangibile ma virtuale: erano ormai i tempi dei blog ed entrambi ci dilettavamo di scrittura digitale; Lei aveva corollato sul web il Suo vecchio pallino dei calembour fondando il sito Peter “Pun (laddove il gioco di parole indicava, sin dalla denominazione, lo scopo linguistico e ludico dell’iniziativa), io Le inviavo periodicamente via email le mie nuove pubblicazioni per scoprire, non senza un sottile orgoglio, che in realtà Lei le aveva già lette online con minuzia e segnato a parte, immagino con il Suo vecchio lapis blu, i passaggi “meno efficaci”: nonostante gli anni trascorsi e le rispettive professioni, infatti, giocavamo ancora con piacere al dualismo professore-studente e Lei mi inoltrava ancora preziosi suggerimenti come se avessi appena posato il volume dei “Promossi Spesso a Spasso”. E capivo dal commiato delle email quando Lei, nella Sua sconfinata discrezione, riteneva inconsciamente di aver ‘superato’ l’invalicabile limite – per la Sua sensibilità – tra suggerimento amichevole e correzione pedante: si firmava, infatti, alternativamente “Peter” (come Pun) o, semplicemente, “Savelli”. E io La prendevo affettuosamente in giro.

Le volevo bene davvero, Professore, confido che Lei lo abbia infine pienamente e definitivamente compreso.

— Il professor Marcello Savelli ci ha lasciati improvvisamente nel gennaio 2021 con dignità e in silenziosa ed estrema discrezione, così come aveva vissuto: mi sarebbe piaciuto potesse leggere queste parole che, confido, lo possano comunque raggiungere ovunque egli sia per stimolare un nuovo, eterno e complice sorriso. —

[Nella foto Roberto Herlitzka, il professor Fiorito de “Il Rosso e il Blu”, 2012]